APG23
22/12/2017
Ha ricevuto il più bel regalo di Natale della sua vita D., 40 anni, quando, nella giornata di ieri, gli operatori della Comunità di S.Antonio di Faenza gli hanno annunciato senza preavviso che sarebbe presto ritornato un uomo libero. Sta per terminare, con la fine dell'anno, il percorso terapeutico per l’uscita dalla droga.
Il 26 dicembre alle 11.15 giungeranno con lui a Rimini altre 30 persone da Forlì, 10 dal Brasile e 6 dai paesi dell’est. Circa 100 fra giovani ed adulti arriveranno dalle comunità terapeutiche contro le dipendenze della Comunità Papa Giovanni XXIII. Nella Parrocchia della Resurrezione, che fu di Don Oreste Benzi, celebreranno il Riconoscimento della propria vittoria personale su droga, alcool e gioco d’azzardo. Circa 400 familiari verranno a stringere la mano ai propri figli ritrovati: celebrerà l'Eucarestia l’Arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi.
12 dei protagonisti della giornata saranno donne. La maggior parte delle vittime di dipendenze che ha terminato il programma ha lottato per la liberazione dalle droghe: eroina in primo luogo e cocaina. 22 sono le comunità in Italia; 17 i centri all’estero. Il percorso di recupero dura in media 3 anni e che è costituito da 3 fasi: l’accoglienza, la comunità, il rientro. Al termine, il Riconoscimento è un momento di rinascita per intere famiglie. La prima festa del riconoscimento è stata celebrata da don Orenze Benzi nel 1995.
Per i più giovani è il tempo di guardare al futuro; come è il caso per M., che era entrato in comunità nel vicentino all’età di 17 anni e che ora ne compirà 20; un altro ragazzo, A. di 25 anni, ha deciso di partire per un anno di servizio civile in Bolivia; un altro giovane ha terminato il conservatorio e si prepara a diventare maestro di oboe. Alcuni hanno già trovato lavoro part-time nei bar o nei servizi ambientali.
Giovanni Paolo Ramonda, il responsabile della Comunità, si rivolge con un augurio ai ragazzi impegnati nei programmi terapeutici: «Siete giovani che nel cammino di liberazione dalle dipendenze avete scoperto i vostri talenti, ora sappiate metterli a frutto per il bene comune e dei più poveri». E poi si rivolge alla politica: «Assistiamo ad un crollo verticale dell’attenzione al tema delle dipendenze patologiche, soprattutto per quanto riguarda quelle più tradizionali come droghe ed alcool. Il prossimo governo definisca una delega, e riattivi la consulta di esperti ed i percorsi previsti dal testo unico 309/90».
APG23
22/12/2017
Si dice che Natale venga una volta all’anno. È il momento più atteso, dai piccoli come dai grandi, ed è per tutti l’occasione di raccogliere i pensieri, di radunare intorno a sé le persone care, di riempire gli occhi e il cuore di cose buone.
C’è chi, però, non ha nulla di tutto ciò ma vive la solitudine, la povertà e l’emarginazione.
Sono gli uomini e le donne che vivono in strada perché non hanno nessun altro posto dove andare; le famiglie che lasciano la propria terra di origine in cerca di una vita dignitosa e di possibilità più eque; i piccoli gravemente disabili che vengono abbandonati da chi non ha le risorse o forse la forza di prendersene cura.
Sono gli anziani soli, le giovani donne costrette a prostituirsi, i bambini di strada, le mamme che non riescono a sfamare i figli, i papà che non hanno un lavoro.
È proprio a queste persone che Apg23 apre la porta di casa e quella del cuore, per condividere la vita con loro nelle sue case famiglia e nelle realtà di accoglienza di tutto il mondo e perché diventino figli, fratelli, sorelle e nonni, per sempre.
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Per tutti loro Natale non viene una volta all’anno: Natale è tutti i giorni.
APG23
19/12/2017
«Chiediamo che il prossimo Governo istituisca un Ministero della Pace». Questa la proposta lanciata in conferenza stampa al Senato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, cui hanno aderito Azione Cattolica, Pax Christi, Focsiv, Centro Diritti Umani di Padova, Movimento Nonviolento, CESC Project.
Testimone dell'iniziativa l'attore Giuseppe Fiorello: «Sono qui perché mi è piaciuta l'idea. Ho sempre amato gli utopisti, i visionari, quelli buoni, che costruiscono concretezza. Questo è stato don Oreste Benzi, uno che dalla quotidianità, dalle piccole cose ha costruito la storia».
«In un momento storico in cui si riaffaccia il pericolo nucleare è necessario fare una scelta politica coraggiosa». Questo il commento di Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità di don Benzi. «Ci appelliamo a tutte le forze politiche affinché inseriscano nei loro programmi elettorali la scelta di istituire un Ministero della Pace, in linea con l'art. 11 della nostra Costituzione».
Sono intervenuti la senatrice Francesca Puglisi, Giovanni Paolo Ramonda (Apg23), Gianfranco Cattai (Focsiv), don Renato Sacco (Pax Christi), Michele Tridente (Azione Cattolica), Marco Mascia (Università di Padova).
La Comunità Papa Giovanni XXIII promuove, insieme ad un cartello di associazioni, la campagna Ministero della Pace, una scelta di Governo. La proposta ha l'obiettivo di far istituire nel prossimo Governo Italiano un Ministero che si occupi delle politiche di Pace, sia in Italia che all'estero. Tutte le informazioni e gli approfondimenti sul sito www.ministerodellapace.org.
Scarica le foto e la cartella stampa
APG23
18/12/2017
Il 10 dicembre scorso (Anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani) la Comunità Papa Giovanni XXIII ha aderito ad un giorno di digiuno nazionale contro la pena dell’ergastolo. «L’uomo non è il suo errore, ma è molto più grande», diceva don Oreste Benzi.
Papa Francesco definisce l’ergastolo come una pena di morte “nascosta”: «Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. Nel Codice penale del Vaticano non c’è più l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta» (Discorso del Santo Padre Francesco alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale nella Sala dei Papi il 23 ottobre 2014).
Infatti da luglio 2013 nel Codice penale del Vaticano non c’è più l’ergastolo.
«Gli ergastolani non hanno mai anni di carcere in meno da fare, ma sempre anni in più. Crediamo che questa terribile pena ti mangi l’anima, il corpo, il cuore e l’amore» dice Giorgio Pieri, coordinatore CEC (Comunità educante con i carcerati della Comunità Papa Giovanni XXIII). «Pensiamo che una pena come l’ergastolo non sarà mai in grado di fare giustizia. Un uomo, qualsiasi reato abbia commesso, non può essere annullato. Punito sì, ma non distrutto per sempre. E poi l’ergastolo non funziona, non è un deterrente, può solo alimentare il male, e fa sentire vittime del reato, anche se il reato è il loro. Molti sono contrari alla pena di morte, eppure non lo sono per la pena dell’ergastolo. E non si capisce bene il perché. Le alternative sono due: o pensano che l’ergastolo sia meno doloroso della pena di morte, o il contrario, cioè che con la pena di morte cessi la sofferenza della pena e quindi finisca anche la vendetta sociale».
Cosa significa ergastolo ostativo
La pena dell’ergastolo, in Italia, è prevista e disciplinata dal Codice Penale, agli articoli 17 e 22. Chi vi è condannato può, nelle modalità previste, avere accesso a una serie di benefici, come il regime di semilibertà e la libertà condizionale, e godere di determinati tipi di permessi. Inoltre, è stabilito che dopo al massimo 26 anni di espiazione della pena, il condannato possa essere ammesso alla liberazione condizionale.
Il significato di ergastolo ostativo (detto anche carcere a vita) praticamente è questo: l’accesso ai benefici e alle misure alternative al carcere sono negati, senza nessuna possibilità di cambiamento.
Che pena questa morte! Una lettera aperta contro il carcere a vita
La Comunità Papa Giovanni XXIII ha sempre sostenuto la campagna contro il carcere a vita. Di seguito pubblichiamo una lettera aperta scritta da Giorgio Pieri.
La rivoluzione di Papa Francesco si fa avanti a piccoli passi, ma decisivi per un cambiamento della storia umana. Mentre Trump invoca la pena di morte per il terrorista colpevole di stragi in nome dell’ISIS, il Papa va direttamente nella direzione opposta: l’abolizione della pena di morte. Ma non è questa la rivoluzione del Papa, ma il contesto nel quale afferma tale dovere cristiano: il discorso per la promozione della nuova evangelizzazione, svolto mercoledì 11 ottobre 2017.
Due parole chiave per comprendere: “Custodire” e “Proseguire”. La Chiesa deve custodire la verità, proteggerla dai nemici, dai falsificatori, e oggi dall’ideologia del nulla che permette tutto. Contemporaneamente si rende necessario «esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce. È quel tesoro di “cose antiche e nuove” di cui parlava Gesù, quando invitava i suoi discepoli a insegnare il nuovo da lui portato senza tralasciare l’antico (cfr Mt 13,52)». Don Oreste, fondatore della comunità Papa Giovanni XXIII, e Servo di Dio di cui abbiamo celebrato i 10 anni la sua salita in cielo, aveva proprio la capacità di rendere attuale il vangelo perché pur custodendo la verità sapeva attualizzarlo attraverso la vita di condivisione con i poveri. Le definiva “le nuove chiamate”, i problemi che richiedevano una risposta nuova, creativa e a volte geniale alla luce del vangelo.
Pena di morte, misura disumana e contraria al vangelo
Rispetto al tema della pena di morte c’è stato un ripensamento da parte della chiesa la quale oggi, con le parole di Papa Francesco dichiara che «Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale. È in sé stessa contraria al Vangelo perché viene deciso volontariamente di sopprimere una vita umana che è sempre sacra agli occhi del Creatore e di cui Dio solo in ultima analisi è vero giudice e garante. Mai nessun uomo, «neppure l’omicida perde la sua dignità personale», perché Dio è un Padre che sempre attende il ritorno del figlio il quale, sapendo di avere sbagliato, chiede perdono e inizia una nuova vita. A nessuno, quindi, può essere tolta non solo la vita, ma la stessa possibilità di un riscatto morale ed esistenziale che torni a favore della comunità».
Rispetto questa presa di posizione ho scelto di parlarne con una ventina di detenuti che espiano la loro pena presso la Casa Madre della Riconciliazione, casa situata nei colli riminesi facente parte del progetto CEC apg23 (Comunità Educante con i Carcerati della Comunità Papa Giovanni XXIII). Tra loro c’erano anche persone che hanno commesso omicidio e reati sessuali. Ho posto loro questa domanda: è giusto abolire la pena di morte? Sono rimasto sorpreso perché ho trovato resistenze e non pochi erano a favore della pena di morte. Poi parlando si è giunti a considerare la necessità dell’ergastolo a vita al posto della pena di morte. Ragionando e soprattutto considerando che anche su questo punto il Papa ha abolito l’ergastolo ostativo 3 anni fa dalla Città del Vaticano si è convenuto che il tema è davvero complesso e che la provocazione del Papa è enorme. Tempo fa ho visitato le carceri nello stato del Camerun che nelle sue leggi contempla la pena di morte e dove abbiamo 2 case d’accoglienza per detenuti secondo il progetto CEC ed anche una forte presenza nelle carceri che sono luoghi di tortura: in 24 persone in 12 metri quadrati, persone che hanno le catene ai piedi, condizioni igieniche assurde, cibi scadenti come l’assistenza sanitaria. In una di queste ho conosciuto condannati a morte che lo stato non uccide, ma di fatto li lascia in carcere. Mi viene in mente Woltair che mi disse: «sono anni che i miei occhi non guardano oltre i 30 metri. Per superare questo blocco, sono costretto a guardare in cielo, dove c’è Dio». Dentro per omicidio, Woltair ha solo 32 anni e da 10 anni è in carcere e finirà la vita lì dentro. Questi, come quelli che in Italia sono condannati con l’ergastolo ostativo usciranno dal carcere attraverso la bara, da morto. Ecco perché il Papa ha parlato dell’ergastolo ostativo come pena di morte mascherata. Ecco che allora siamo a dover considerare opportuno fissare una data di scadenza alla pena, al di là della tipologia del reato. Non a caso il Papa ha parlato di un diritto dicendo: «A nessuno, quindi, può essere tolta non solo la vita, ma la stessa possibilità di un riscatto morale ed esistenziale che torni a favore della comunità».
Ergastolo e giustizia
È ovvio che siamo tutti a chiederci: ma come è possibile offrire ai detenuti un riscatto morale ed esistenziale che addirittura abbia la forza di riparare al male fatto nei confronti della società? Sino ad oggi abbiamo risposto al male con il male. Fino a poco tempo fa, dice il Papa, «il ricorso alla pena di morte appariva come la conseguenza logica dell’applicazione della giustizia a cui doversi attenere. Purtroppo, anche nello Stato Pontificio si è fatto ricorso a questo estremo e disumano rimedio, trascurando il primato della misericordia sulla giustizia».
Don Oreste Benzi, parlando dei detenuti, sin dall’inizio affermava che fosse necessario riconoscere l’opzione fondamentale: «quando una persona si pente del male fatto, non deve fare neanche un giorno di carcere, ma magari dedicare la sua vita per rimediare al male fatto con azioni a favore delle vittime e della società».
Ecco allora che si rende necessario, anzi urgente creare luoghi di vita dove si rende possibile l’espiazione della pena che restituisca giustizia alle vittime e alla società. L’esperienza mi insegna che chi compie del male, spesso l’ha subìto. Il male cresce nelle ferite del cuore dell’uomo. Il male è una catena che si auto alimenta e non lo si a ferma con la violenza, con il male. Neanche la pena di morte ferma il male. Può fermare una persona, ma il male nella società aumenta. Che fare?
Il perdono non cancella la giustizia: un'alternativa al carcere
Costruire comunità educanti dove il reo espia la pena lasciandosi educare da una comunità che gli vuole bene. La comunità Papa Giovanni XXIII sperimenta tale modello da oltre 15 anni. Oggi sono oltre 300 le persone accolte a costo zero per lo stato. È possibile sperimentare la potenza del vangelo. La via del perdono, della misericordia quando è applicata con intelligenza, non cancella la giustizia, non degenera in buonismo. Ne è la prova che tanti sono quelli che preferiscono il carcere alla vita comunitaria che è fatta di regole. Di diritti, ma anche di doveri.
Arriverà il giorno che guarderemo le carceri, queste enormi colate di cemento, dove gli uomini vivono ingabbiati in condizioni disumane e arriveremo a riconoscerne l’assurdità. L’evoluzione dell’umanità non può mantenere luoghi di morte in nome della giustizia. Anche le carceri come sono oggi concepite verranno riconosciute al pari della pena di morte come un modo di rispondere al male attraverso una mentalità attenta alla regola, ma non alla persona.
Nella lettera del Papa colpisce come nel prendersi la responsabilità come Chiesa, ne individua le cause di certe scelte fatte nel passato: «Nei secoli passati, quando si era dinnanzi a una povertà degli strumenti di difesa e la maturità sociale ancora non aveva conosciuto un suo positivo sviluppo, il ricorso alla pena di morte appariva come la conseguenza logica dell’applicazione della giustizia a cui doversi attenere. Purtroppo, anche nello Stato Pontificio si è fatto ricorso a questo estremo e disumano rimedio, trascurando il primato della misericordia sulla giustizia. Assumiamo le responsabilità del passato, e riconosciamo che quei mezzi erano dettati da una mentalità più legalistica che cristiana. La preoccupazione di conservare integri i poteri e le ricchezze materiali aveva portato a sovrastimare il valore della legge, impedendo di andare in profondità nella comprensione del Vangelo».
L’abolizione della pena di morte dunque porta necessariamente all’abolizione dell’ergastolo ostativo. Ma se un criminale deve uscire dal carcere dopo 30 o 40 anni si rende altresì necessari la creazione di percorsi educativi che restituiscono alla società persone non più pericolose.
Tali percorsi rendono attualizzabile il vangelo che afferma che Gesù non è venuto per i giusti ma per gli ingiusti e soprattutto noi Cristiani siamo chiamati ad amare i nemici. Amare significa certamente perdonare, certamente avere misericordia, ma soprattutto creare le condizioni perché il reo non ricommetta reato. Laddove si possono sperimentare questi percorsi educativi, la recidiva si abbassa dall’80% al 15%. Ciò significa che la società applicando il vangelo, ha tutto da guadagnare in termini di sicurezza. Anche dal punto di vista economico investire sull’educazione permette un risparmi di oltre i tre quarti della spesa odierna. Un esempio in questa direzione è l’esperienza brasiliana: l’APAC (Associazione per la Protezione Assistenza Condannati). Sono piccoli ma significativi segni di speranza. Sono carceri senza guardie dove la recidiva si abbassa dall’80% al 20%. Cioè su 100 persone che escono solo 20 tornano a delinquere contro gli 80 del sistema comune. Nel solo stato del Minas Gerais sono 52 le carceri a metodo APAC ed i costi sono un quarto del metodo tradizionale. L’ONU l’ha riconosciuto come il miglior metodo nel panorama mondiale . La conferenza Episcopale Brasiliana (CEB) afferma che laddove c’è l’APAC non è più necessaria la pastorale carceraria. L’APAC prima di diventare ente giuridico era un grumo di volontari che appartenevano al gruppo Amando il Prossimo Amerai Cristo (APAC). Essendo un metodo che ha per fondamento l’esperienza Cristiana, non può che continuare a diffondersi. È la vittoria del bene sul male il primato di una giustizia educativa che prende il posto di una giustizia vendicativa che è quella delle carceri.
Giorgio Pieri coordinatore CEC apg23 (Comunità educante con i carcerati della Comunità Papa Giovanni XXIII)
APG23
18/12/2017
Sabato 16 dicembre, nello sfavillio delle vetrine e delle luminarie natalizie del centro di Milano, ha brillato la luce dell’incontro gioioso di centinaia di giovani e dei membri della Comunità Papa Giovanni XXIII Lombardia, con l’arcivescovo Mario Delpini. Insieme hanno condiviso la celebrazione eucaristica, nella parrocchia di san Babila. Da tempo luogo abituale di ritrovo e partenza , per l’appuntamento mensile con i senza fissa dimora. Presenza fedele che la Comunità ha iniziato nel 2001, su invito del cardinale Martini. Da allora, giovani e adolescenti provenienti da tutta la Lombardia, si ritrovano per un momento di adorazione, per poi uscire nelle vie della città.
«L’annuncio dell’Incarnazione di Gesù porta la gioia a chi è solo, sofferente, scartato, arreso alla banalità» – ha detto durante l’omelia l’arcivescovo – «Annuncio di gioia: rallegrati il Signore è conte! Questo annuncio viene portato da angeli che si fanno vicini e presenti nella quotidianità. Grande è la mia gratitudine alla grande famiglia della Papa Giovanni; voi siete gli angeli di Dio che visitano la città».
Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale della Comunità, al termine della Santa Messa ha salutato l’arcivescovo, ricordando che anche per don Oreste, il fondatore, l’Eucarestia è sempre stata il punto di partenza di ogni progetto e di ogni incontro con il povero e l’emarginato. Ha inoltre ringraziato l’arcivescovo per l’accoglienza e il clima familiare che ha caratterizzato questo incontro. Un crocefisso di legno e il bastone pastorale, ricavati dai barconi abbandonati sulle coste italiane dai migranti, sono stati donati al Pastore della Diocesi di Milano.
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Dopo l’esposizione del Santissimo, tutta l’assemblea si è ritrovata sul sagrato della chiesa. L’arcivescovo ha partecipato alla registrazione dell’augurio di buon compleanno per Papa Francesco e poi si è incamminato con un gruppo di giovani, per incontrare gli homeless, lasciando questo ulteriore messaggio: «Portate a tutti coloro che incontrerete, il saluto e la vicinanza del vescovo, con un annuncio di Goia e Speranza; non date solo generi di conforto e compassione, ma annunciate la vicinanza di Gesù».
Diventa anche tu volontario a Milano
Se sei interessato a fare volontariato a Milano, puoi chiedere informazioni a: capannadibetlemme@apg23.org
(foto di Gleb Khodov)
APG23
15/12/2017
«Questa legge presenta errori, frutto della fretta. Il considerare l'idratazione e la nutrizione artificiale come terapie, l'ambiguità sull'obiezione di coscienza, il ruolo dei tutori sono elementi che rendono questa legge sbagliata». Questo è il commento di Giovanni Paolo Ramonda, Presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, in merito all'approvazione della legge sul biotestamento in Parlamento.
«Non esiste un diritto alla morte – continua Ramonda – , ma solo un diritto alla vita. Ci auguriamo che la prossima legislatura possa porre rimedio agli errori fatti».
La Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, opera al fianco degli ultimi dal 1968. Oggi conta oltre 500 case famiglia in Italia e all’estero. La Comunità ha pubblicato un documento relativo a questa legge.
APG23
14/12/2017
Arriveranno a Milano da tutta la Lombardia i giovani che incontreranno i senza fissa dimora dopo la celebrazione dell’Eucarestia in ricordo di Don Oreste Benzi. A presiederla sarà Mons. Mario delpini, Arcivescovo della Diocesi Ambrosiana. L’appuntamento è sabato 16 dicembre alle ore 20 nella Parrocchia di San Babila; al termine della celebrazione seguirà l’esperienza di condivisione in strada con i senza fissa dimora. Saranno un centinaio i ragazzi che si alterneranno nell’incontro con gli homeless e nella preghiera silenziosa. L’appuntamento mensile detto del Pasquirolo (dalla Parrocchia di San Vito al Pasquirolo dove l’iniziativa è partita nel 2001) chiama a raccolta anche 250 giovani per l’incontro con persone disadattate, ma anche con i ragazzi normali che cercano di notte momenti di divertimento. Poche settimane dopo il ricordo del decennale della morte di Don Oreste Benzi, che è salito al cielo il 2 novembre 2017, la Comunità Papa Giovanni XXIII in collaborazione con la Diocesi e le realtà ecclesiali ed associative del territorio, ne rinnova gli insegnamenti nell’incontro con i più poveri. Sono 3 fra Milano e la provincia di Cremona le Capanne di Betlemme in cui studenti e ragazzi comuni condividono quotidianamente la vita con gli ultimi.
CHI ERA DON ORESTE BENZI: sacerdote riminese nato nel 1925, spende la propria vita a favore degli ultimi. Figlio dell'Italia martoriata del dopoguerra, propone ai giovani «un incontro simpatico con Cristo». Nel 1968 con un gruppetto di ragazzi ed alcuni sacerdoti dà vita all’Associazione Papa Giovanni XXIII, che conta oggi oltre 500 case famiglia e realtà di accoglienza in tutto il mondo. Don Benzi guida l’apertura della prima Casa Famiglia a Coriano, sulle colline riminesi, il 3 luglio 1972. È il primo in Italia a lottare contro la cultura della prostituzione e a denunciare la tratta delle donne; con la sua lunga tonaca scura ed il rosario in mano negli anni '70 ed '80 incontra le donne vittime del racket della prostituzione proponendo loro la liberazione immediata e l’inizio di una vita nuova.
APG23
12/12/2017
Ogni anno per un centinaio di ragazzi vittime della dipendenza dall'alcool, dalla droga o dal gioco d'azzardo si celebra un miracolo. È il miracolo della rinascita. Il miracolo di chi ha vissuto il martirio di una esistenza fatta di ferite nascoste, lacerate e sanguinanti, di incontri camuffati d'amicizia, confusi da sostanze.
È il giorno del riconoscimento del cammino compiuto da chi ha fatto tesoro di ciò che è stato, compresi gli sbagli, per ritrovarsi come persona nuova. Di chi ha smesso d'indossare ciò che non gli appartiene, per essere veramente ciò che vuole essere.
Questo miracolo si avvera dal 1983 il 26 dicembre, giorno in cui la Chiesa celebra Santo Stefano. Anche quest'anno appuntamento a Rimini.
La celebrazione della scorsa edizione era stata presieduta da Mons. Edoardo Menichelli, vescovo di Ancona, alla parrocchia della Resurrezione di Rimini, che per trent'anni ha avuto don Oreste Benzi come parrocco. Ed è stato proprio lui a «pensare e a volere la Festa del riconoscimento come momento in cui viene riconosciuto il termine del percorso terapeutico e l'impegno a vivere la propria vita secondo i valori sperimentati in comunità» ricorda Giovanni Salina, responsabile delle Comunità Terapeutiche della Comunità Papa Giovanni. Ad oggi sono stati “riconosciuti” migliaia di ragazzi. Nel 2016 a terminare il programma terapeutico sono stati in 115, provenienti dalle Comunità terapeutiche presenti in Italia e all'estero (Croazia, Albania, Argentina, Brasile, Bolivia e Cile).
Un tema sulle dipendenze: testimonianze dalle Comunità Terapeutiche
Molti dei ragazzi protagonisti del riconoscimento raccontano di un viaggio che è iniziato da una sofferenza, da un vuoto, che è costato fatica e dolore per ritrovare la dignità perduta. Parlano di voglia di rimettersi in gioco, senza stupefacenti, senza ipocrisia. Ottimo spunto per un tema scolastico!
Ludovica, dalla droga al volontariato in Comunità Terapeutica
Ludovica, 27 anni da Napoli, è una di questi. Oggi sta studiando Scienze dell'Educazione all'Università, per diventare un'operatrice di Comunità, dove intanto fa la volontaria. «La droga è subdola, e si prende tutto, senza renderti conto che in realtà ti sta risucchiando, levando quei valori, quella dignità e quel rispetto per te stessa fondamentali per stare a questo mondo».
Il suo viaggio nella «non vita» dura 10 anni. Si sentiva non voluta dai suoi genitori, «mi ero convinta di essere stata uno sbaglio, uno grande!». Una zavorra da portare che la rende insicura e instabile, con una personalità che fatica «a reggere i duri colpi della vita adolescenziale!». Nella strada trova una seconda famiglia: «Credevo di sentirmi libera con i miei amici estranei! Così libera da poter essere finalmente chi volevo, senza sentirmi sbagliata. Eravamo tutti cuccioli abbandonati alla fine!».
A dodici anni le prime canne «le mie più fedeli alleate, le mie amiche, quelle che mi sostenevano quando ero giù, che mi scioglievano l’ansia quando ero in mezzo agli altri, che mi facevano sentire “figa” in un gruppo appena conosciuto, tenendo lontani tutti i pensieri». Conosce la cocaina e l’eroina, che l'allontanano sempre più dagli affetti, illudendola di non aver bisogno di nessuno. Toccando il fondo, capisce che era arrivato il momento di chiedere aiuto. In comunità ha finalmente ricomposto il puzzle della sua vita. «Sono tornata ad essere me stessa, finalmente senza falsi sostegni, piena di vita e di persone, di incontri e di gioie, di dolori e di emozioni vere, perché le sento tutte, e a testa alta, insieme alla gioia di poterle dividere col prossimo, vado avanti, facendo finalmente tesoro di quella che sono stata e con la voglia di scoprire chi sarò!».
Francesco, oltre la dipendenza c'è «il sole a illuminare i miei passi»
«C’è un momento nella vita, in cui bisogna spogliarsi completamente, anche della propria pelle. È un momento molto doloroso. È imbarazzante. Io l’ho vissuto. Lembo dopo lembo, lacrima dopo lacrima, con fiducia e premura, alcune persone hanno deciso di aiutare chi come me, era avvolto ormai solo nell’angoscia». È così che racconta quanto ha vissuto Francesco, originario della Toscana, che nel 2013, decide di intraprendere il cammino di recupero dalla tossicodipendenza che oggi, a 24 anni, è ad un passo dall'essere terminato.
Tutto ha inizio il giorno del suo quindicesimo compleanno. Il passaggio di uno spinello fumato in compagnia fuori da occhi indiscreti. «Una fetta di realtà era stata ritagliata appositamente per noi. Stavo bene, stavamo bene», racconta. Gli eventi scatenanti che portano all’abuso di sostanze stupefacenti sono molteplici ma è sicuro che «passano tutti attraverso il rifiuto della realtà propria e di ciò che ci circonda. Una persona serena nella realtà in cui è immersa, non ha alcun bisogno di distorcerla. La droga è una reazione».
Nel giro di pochi anni dallo spinello passa all'uso di sostanze sempre più nocive, fino a trovarsi immerso nella cocaina. «È vero, non sempre le sostanze hanno uno sviluppo progressivo, il “passare ad altro” non è una costante, ma fidatevi della mia esperienza personale, accade veramente spesso. A me è accaduto. Quando mi sono reso conto che ero a un passo dalla morte, non mi sono spaventato poi così tanto, ho avuto più paura quando mi sono reso conto di essere rimasto solo».
Ha ripreso gli studi e lavorato molto su di sé in questi anni. «Spesso mi guardano come un alieno, alcuni non mi riconoscono e mi dicono: “come sei cambiato!”. Balle! Non sono cambiato, non sono un altro, sono me; solamente che prima non ero in me. Ora cammino, a volte zoppico, ma non temo… perché oggi c’è il sole a illuminare i miei passi».
Dipendenze patologiche: come chiedere aiuto
La Comunità Papa Giovanni XXIII ha attivato il numero unico per le richieste di aiuto, 348.9191006
Comunità Terapeutica Rimini
Risponde al numero 0541.50234
Comunità Terapeutica Forlì
Risponde al numero 0543.799278
Comunità Terapeutica Lodi
Risponde al numero 02.9061106
APG23
06/12/2017
Mons. Lemmens, vescovo ausiliare di Bruxelles, stimava molto la Comunità Papa Giovanni XXIII e già da qualche tempo aveva chiesto una presenza nella sua diocesi. Anche se mons. Lemmens ha lasciato pochi mesi fa questa terra, morendo prematuramente per una malattia, il suo desiderio fra qualche mese diventerà realtà: una casa famiglia a Diest, 50 km da Bruxelles.
Nel cuore dell’Europa dove tutto è ben organizzato, dove c’è una risposta per ogni povertà, che bisogno c’era di una casa famiglia? «I servizi sociali rispondono bene ai bisogni della popolazione locale, ma se sei straniero è molto più complicato» spiega Pierpaolo Flesia, responsabile della Zona Centro Europa, che comprende Germania, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti e fra qualche mese anche il Belgio, appunto. «Chi si sposta, soprattutto provenendo dai paesi dell’Est, per trovare lavoro non riesce a integrarsi e spesso finisce sulla strada, cadendo nell’alcol e nella droga. Ci sono delle sacche di povertà anche in questi Paesi ricchi, il bisogno più grande è la solitudine, l’isolamento: quando tu hai tutto, il rischio è che ti isoli. Penso che la casa famiglia possa rispondere proprio a questo grande bisogno, perché crea una rete di relazioni e aiuta a uscire dall’isolamento. La condivisione di vita che viviamo nella casa famiglia stravolge la mentalità del servizio, perché i poveri te li porti in casa tua e vivi insieme a loro: erogare un servizio è molto diverso dalla condivisione di vita».
Bruxelles chiama, l’Italia risponde. In questo caso è stata la famiglia di Alessandra Frison e Andrea Ruffato di Castello Roganzuolo, frazione di San Fior (TV), sposati da 14 anni, aperti all’accoglienza come casa famiglia "Madre dei Poveri" dal 2005. «Partiremo per il Belgio a luglio 2018, per dare la possibilità ai nostri figli di terminare questo anno scolastico già iniziato» dice Alessandra, che insieme al marito e ai loro 6 figli (naturali e rigenerati nell’amore, più uno in arrivo, visto che Alessandra deve partorire a breve) hanno detto sì alla missione.
Alessandra e Andrea Ruffato con la loro famiglia, in partenza per Bruxelles
Nel frattempo vanno avanti i preparativi per la partenza: «A luglio scorso siamo andati in Belgio per visitare la parrocchia che ci ospiterà» spiega Alessandra. «Dovevamo tornarci per definire alcuni particolari e preparare alcuni documenti, ma siccome sono al termine della gravidanza, hanno deciso di venire loro a trovarci, per poter conoscerci meglio». E così nei giorni scorsi (dal 25 al 28 novembre) una piccola delegazione belga è arrivata nel trevigiano per conoscere meglio Alessandra, Andrea e tutta la “banda” e per capire un po’ meglio che cosa sia la Comunità Papa Giovanni XXIII.
«Sono venuti a trovarci il parroco che ci ospiterà e altre 2 persone della parrocchia dove andremo ad abitare, il vicario, più altre 2 persone che lavorano in diocesi» racconta Alessandra.
La piccola delegazione belga ha visitato la cooperativa sociale di Carmignano e la pronta accoglienza di Valdagno. Ha potuto incontrare il vescovo di Vittorio Veneto, mons. Corrado Pizziol e anche Mario Frighetto, missionario in Cile della Papa Giovanni XXIII. E hanno chiesto di visitare Sant’Antonio a Padova prima di ripartire.
«La cosa li ha colpiti di più?» continua Andrea. «Sicuramente la condivisione diretta. Aiutare i poveri loro lo fanno come lavoro, all’interno della Caritas diocesana. Qui hanno visto la differenza tra fare un servizio e vivere con gli ultimi! Nella semplicità e nella verità, con le fatiche e le gioie, hanno sperimentato il senso di essere insieme agli ultimi. Hanno fatto domande molto concrete sulla condivisione: perché scegliete di vivere con loro, quali sono le difficoltà che incontrate, dove sono le famiglie di origine, come vi sostenete... era un aspetto che avevano bisogno di capire».
APG23
05/12/2017
Schiavi oggi, è possibile? Certamente, visto che si parla di 21.000.000 vittime della schiavitù moderna che ci sono nel mondo, di cui il 59% ai fini della prostituzione. In Italia fra le 75.000 e le 120.000 donne sono schiave del sesso; la conferma arriva nel bel reportage del Guardian.
Il 2 dicembre di ogni anno è la Giornata Internazionale per l’Abolizione della Schiavitù, indetta nel 1949 dalle Nazioni Unite. Ogni anno è un'occasione per denunciare, con eventi e manifestazioni, la tratta degli schiavi moderni, e per fare qualche proposta.
Nek aderisce alla campagna contro la schiavitù
La Giornata Internazionale contro gli schiavi 2017 ha visto l'adesione di Nek, del batterista dei Modena City Ramblers Roberto Zeno, di Claudia Koll: insieme a molti altri comuni cittadini hanno alzato la voce per chiedere alle istituzioni impegno per contrastare la schiavitù delle donne. Nel 37% dei casi di prostituzione si tratta di schiave bambine o poco più, con una carriera che in alcuni casi inizia già a 13 anni.
Le star dello spettacolo a Modena si sono unite insieme, in una catena umana, insieme alla gente comune. Chiedevano l'approvazione di una legge che sconfigga la schiavitù moderna, e hanno firmato e chiesto a tutti di firmare una petizione: Questo è il mio corpo, che propone di contrastare il mercato del sesso scoraggiando la domanda da parte dei clienti delle prostitute. Una proposta concreta, facilmente attuabile, che vede al fianco istituzioni politiche di tutti gli schieramenti e realtà della Chiesa.
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«Siamo qui insieme a La Bruciata a Modena, su quegli stessi marciapiedi dove di notte sono costrette a prostituirsi giovani donne violate, sfruttate per i guadagni di trafficanti senza scrupoli, qui come avviene ogni notte in tante altre città italiane», hanno esordito gli organizzatori. Vent'anni fa esatti, il 23 dicembre 1997, c'era Don Oreste Benzi alla testa del migliaio di persone che si erano riunite su questo stesso marciapiede, in catena umana.
Claudio Ferrari è un volontario delle unità di strada ed è stanco di assistere ogni notte alle stesse scene: «Tutte le sere nella città di Modena si prostitutuiscono 70 ragazze, impegnate a vendere il proprio corpo 10 volte almeno, per poter rientrare delle spese. Quando riusciamo a farle scappare ci raccontano storie di violenza devastanti; vengono stuprate, picchiate, spaventate a morte. Abbiamo organizzato questo evento per urlare che tutto questo non è giusto».
Al fianco delle prostitute a Modena c'erano anche i normali cittadini, costretti a convivere con la schiavitù del sesso. Sono arrivati dalle Parrocchie della Madonnina, del Tempio, di San Giovanni Evangelista, dove il fenomeno è più grave.
«Se penso alle parole del Vangelo "ero forestiero e mi avete accolto", non posso restare indifferente di fronte al dramma delle tante donne che su questi marciapiedi sono sfruttate e usate, mentre erano venute in Italia pensando di trovare un lavoro. Per questo rifiutiamo una forma di sfruttamento così inumana»: il Vescovo di Modena Mons.Erio Castellucci era anche lui tra quei cinquecento volti - tantissimi i giovani – di Agesci, Cisl, Nuovi Orizzonti, Focolarini, Arci, Azione Cattolica, Centro missionario, Forum associazioni familiari che sono rimasti per più di un'ora al freddo, lungo i 1300 metri del marciapiede de La Bruciata.
Storie di Donne schiave: le testimonianze
Ecco i racconti della catena contro la traccia, nei filmati di TRC e della Gazzetta di Modena.
Al microfono ha parlato Sonia, arrivata in Italia a 13 anni: ha raccontato la fuga dalla Nigeria e la schiavitù in Libia, e poi come è sopravvissuta nell'attraversare il Mar Mediterraneo. E poi la fine del viaggio: più volte a sera veniva abusata sulle strade da decine di clienti italiani, molti adulti sposati ed indifferenti di fronte alla sua adolescenza. «Perchè nessuno li punisce?», ha gridato.
E poi c'era la storia di Maddalena, venduta come prostituta incinta sulla Via Emilia. È stata liberata, come altre 7000 dal '98 ad oggi, dalle Unità di strada della Comunità di don Benzi.
E non poteva mancare il racconto di un cliente: Fabio ha raccontato il suo inferno fatto di alcol, droga e abusi di donne, una doppia vita che è cambiata solo dopo l'esperienza in carcere.
In alcuni comuni d'Italia la proposta di legge firmata da Nek è già realtà: regolamenti locali recentemente approvati hanno fatto passi enormi in avanti nella direzione di sanzioni per i clienti delle prostitute. Alla catena umana erano presenti i rappresentanti delle amministrazioni comunali di Firenze, Rimini, Carpi, San Felice sul panaro, Castelfranco Emilia, tutti con la fascia tricolore.
Il coordinatore della campagna Questo è il mio corpo, Giorgio Malaspina, ha ricordato a tutti che è sufficiente una firma per sostenere la proposta di legge depositata alla Camera lo scorso 16 luglio: propone sanzioni ai clienti delle prostitute e l'avvio di percorsi socio-riabilitativi, per contrastare alla radice il fenomento della riduzione in schiavitù delle donne ai fini dello sfruttamento sessuale. Una schiavitù mai realmente abolita del tutto. Malaspina ha invitato il Sindaco di Modena Gian Carlo Muzzarelli, anche lui presente, a sostenere questa linea. E il Sindaco ne ha preso atto: «È necessaria una normativa sanzionatoria».
Firma qui anche tu contro la tratta delle donne: Petizione Questo è il mio corpo
APG23
04/12/2017
«Siamo disponibili ad accogliere la neonata con sindrome di down abbandonata a Napoli. In una delle nostre case famiglia potrà ricevere l'affetto di un papà, di una mamma e di tanti fratelli».
Questo il commento di Giovanni Paolo Ramonda, Presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23), in merito alla notizia dell'abbandono di una bambina di 4 mesi dell'est Europa con sospetta sindrome di down.
«Proprio ieri abbiamo celebrato la Giornata internazionale delle persone con disabilità. - continua Ramonda - Eppure oggi molti di questi bimbi rischiano di non vedere neanche la luce, come già sta avvenendo in alcuni paesi del nord Europa. Faccio un appello a tutte le coppie che vengono a sapere di avere un figlio disabile: “Non abortite i vostri figli. Se non riuscite a tenerli con voi, allora ricorrete al parto in anonimato ed altre famiglie si prenderanno cura di loro”».
«Nelle nostre Case Famiglia accogliamo tanti bimbi disabili. - conclude Ramonda - Dalla nostra esperienza quotidiana al loro fianco, possiamo dire che la sofferenza non è data dall'handicap o dalla malattia, ma dalla solitudine che si crea a causa di queste condizioni».
La Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, opera al fianco degli ultimi dal 1968. Oggi conta oltre 500 case famiglia in Italia e all’estero. Don Benzi è stato il primo in Italia a lottare contro la cultura della prostituzione e a denunciare la tratta delle donne.
APG23
01/12/2017
Oggi è sicuramente un giorno speciale per quei giovani bengalesi che sono diventati sacerdoti ricevendo l’ordinazione proprio dalle mani di Papa Francesco. Uno di loro, padre Ripon, era uno dei bambini della parrocchia di Chalna, dove da 18 anni è presente la Comunità Papa Giovanni XXIII. Il piccolo Ripon, insieme a centinaia di altri bambini, non solo cristiani, ma anche indù e musulmani, è stato aiutato per diversi anni grazie ai progetti portati avanti dalla Comunità di don Benzi.
Il Papa è atterrato il 30 novembre a Dhaka. L’ultimo papa a visitare il Bangladesh era stato Giovanni Paolo II nel 1986: dopo più di 30 anni il popolo bengalese ha accolto a braccia aperte il santo pontefice e anche Papa Francesco ha rivolto parole di incoraggiamento e fiducia alle persone radunate. «La bellezza del vostro Paese, avvolto da una vasta rete fluviale e di vie d’acqua, grandi e piccole», ha detto il Papa, «è emblematica della vostra particolare identità come popolo. Il Bangladesh è una nazione che si sforza di raggiungere un’unità di linguaggio e di cultura nel rispetto per le diverse tradizioni e comunità, che fluiscono come tanti rivoli e ritornano ad arricchire il grande corso della vita politica e sociale del Paese».
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Sara Foschi, missionaria della Papa Giovanni XXIII, ha vissuto per 12 anni in Bangladesh e in questi giorni sta seguendo con emozione l’incontro del pontefice con il popolo bengalese: «è stato bello sentire le parole di riconoscenza che Papa Francesco ha rivolto ai bengalesi riguardo alla loro accoglienza nei confronti dei profughi che stanno arrivando dal Myanmar. Tutto ciò sta mettendo a dura prova le condizioni già difficili di questo Paese, uno dei più poveri del mondo. Questo viaggio del Papa è importante per il Bangladesh perché, tornando dopo tanto tempo, accende i riflettori su questo Paese dimenticato dai più. Un Paese che sale alla ribalta solo quando ci sono dei fatti drammatici, come il crollo di quella fabbrica nel 2014 che ha ucciso centinaia di operai, oppure come la strage di luglio 2016 dove sono stati uccisi 9 italiani. Da quell’attentato il Bangladesh sta cercando faticosamente di superare le tensioni grazie al dialogo interreligioso. La presenza di Papa Francesco sicuramente rafforza questo dialogo e proprio a causa di questa visita, i primi ministri del Myanmar e del Bangladesh si sono incontrati per cercare di risolvere il dramma dei rifugiati».
Il viaggio del Papa, che si fa vicino alle periferie del mondo, è importante anche perché la Chiesa guarda sempre con maggior attenzione verso l’Asia e l’Africa, due continenti in cui i cattolici sono in crescita, a differenza di Europa e America. Il popolo bengalese è giovane, e la Chiesa locale guarda ai giovani dell’Asia dando loro una priorità speciale nella pastorale. Il cardinale di Dhaka, Patrick D’Rozario, ha invitato delegazioni da tutte le parrocchie del Bangladesh per partecipare all’incontro col Papa. Anche Mohon è stato selezionato e vedrà il Papa: per Sara Foschi è una grande gioia perché Mohon, che oggi ha 21 anni e frequenta il College, è stato uno dei “suoi” bambini, accolto in Casa Famiglia a Khulna: «è arrivato da noi che aveva 4 anni» ricorda Sara. «Aveva visto sua madre morire e il padre si è trovato a dover accudire 3 figli, di cui uno così piccolo. Aveva vissuto un grosso trauma e pian piano si è aperto con me e insieme siamo riusciti a superarlo. Ora Mohon è tornato a vivere col padre e la famiglia, ma il legame che c’è tra noi è speciale: anche se sono rientrata in Italia da 5 anni, continuiamo a sentirci quasi tutti i giorni».
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Progetti nella missione in Bangladesh
L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII è presente in Bangladesh dal 1999. La missione è situata a Chalna, un piccolo e povero villaggio nella parte sud-ovest del Paese.
Ad oggi sono operative 4 case famiglia che accolgono bambini disabili provenienti dagli istituti delle Suore di Madre Teresa, anziani, madri in difficoltà e persone con disturbi psichiatrici e 3 strutture per ex-accolti che hanno creato piccoli nuclei familiari di sostegno e aiuto reciproci. Le persone accolte sono circa 60.
Leggi tutti gli interventi e i progetti portati avanti in Bangladesh