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APG23
24/09/2018
Grazie a tutti per Un Pasto al Giorno!
Un ringraziamento a tutti quelli che, ancora una volta, hanno reso possibile questo evento, da tutti e due i lati del tavolo: a chi, dietro, ha indossato la maglietta blu e ha speso tempo e parole, e a chi davanti al tavolo si è fermato per donare un pasto a chi non ha nemmeno da mangiare. “Finché gli ultimi non saranno i primi mi trovate qui”, c’è scritto sulle nostre magliette, ed è proprio così. Anche quest’anno ci siamo ritrovati nelle piazze di tutta Italia, fuori dalle chiese, davanti ai supermercati, per rinnovare il nostro impegno contro l’ingiustizia della fame. Un Pasto al Giorno vive tutto l’anno sulle tavole di 42 Paesi del mondo, nella straordinaria quotidianità di più di 500 realtà di accoglienza che cucinano per migliaia di persone. L’evento di piazza invece dura solo un fine settimana, ma è altrettanto straordinario: più di 3.000 volontari mettono il loro tempo a disposizione di questa iniziativa e incontrano migliaia di persone. Molti sono vecchi amici, moltissimi sconosciuti; alcuni si fermano ad ascoltare e poi decidono di lasciare la loro donazione, altri lo fanno d’impulso, spinti solo dal desiderio di fare la propria parte per cambiare le cose. A tutti loro, che hanno dato vita alla decima edizione dell’evento di Un Pasto al Giorno, da una parte o dall’altra del banchetto, va il nostro grazie. Sono stati come sempre due giorni intensi, ma il nostro impegno non si esaurisce qui: chiederemo ancora e ancora di sostenere questa iniziativa, a tutti, ogni giorno, perché ogni giorno dobbiamo mettere in tavola almeno un pasto per le persone che vivono con noi. Solo grazie all’aiuto di chi ci affida le proprie risorse noi possiamo continuare a stare accanto a chi soffre, finché gli ultimi non saranno i primi. Non sprecare l'occasione di aiutare: dona ora o apri una raccolta online per Un Pasto al Giorno
APG23
21/09/2018
La proposta del Ministero della Pace per tutto il mondo
21 Settembre – dalle 13.00 alle 14.30 - Palazzo delle Nazioni, Room XXV - Ginevra Durante la Trentanovesima Sessione del Consiglio dei Diritti Umani che si svolge dal 10 al 28 settembre 2018 ed in occasione della giornata internazionale ONU sulla Pace, questo venerdì 21 settembre 2018, APG23 assieme all’UN Università della Pace del Costa Rica, ha organizzato al Palazzo delle Nazioni Unite di Ginevra un evento parallelo intitolato “Calling for Ministries of peace all around the world” All’evento, che si terrà in sala XXV dalle 13.00 alle 14.30, verrà presentato il lavoro di ricerca “Calling for Ministries of peace alla round the world”. Durante l’evento Giovanni Ramonda, Presidente di APG23, spiegherà l’intuizione di don Oreste e la necessità di una diplomazia dal basso che vuole trasformare la pace in realtà concreta; Fabio Agostoni, rappresentante dell’Ufficio APG23 all’ONU, introdurrà la struttura del documento e le aree tematiche in cui il ministero può operare: 1) rispetto dei diritti umani; 2) educazione alla pace e promozione di politiche di pace; 3) prevenzione dei conflitti e della violenza e riconciliazione o mediazione dei conflitti. Queste stesse aree tematiche verranno poi approfondite da tre esperti: Micheal Weiner – Human Rights Officier at OHCHR; Carmen Parra – Cattedra Unesco in Pace, Solidarietà e Dialogo interculturale all’Università di Abat Oliba (Spagna); Giulia Zurlini Panza – ricercatrice e volontaria di Operazione Colomba che per ogni area tematica approfondiranno i principi connessi e le azioni concrete che un ministero della pace potrebbe mettere in campo. In ultimo mr. David Fernandez Pujana – ambasciatore dell’Università della Pace ONU in Costa Rica – illustrerà l’esempio concreto del Ministero della Pace in Costa Rica e di come una infrastruttura per la pace possa lavorare concretamente per promuovere il diritto umano alla pace a livello nazionale ed internazionale. L’evento, che verrà moderato dalla dr.ssa Maria Mercedes Rossi – rappresentante principale dell’APG23 all’ONU – è stato co-sponsorizzato dallo Stato di San Marino, dall’Università degli studi di Padova – Centro Diritti Umani “Antonio Papisca”, dalla cattedra UNESCO Università Abat Oliva Ceu (Spagna) e dalla cattedra UNESCO Università di Bergamo (Italia) e dalle organizzazioni della società civile IADL (Interantional association of Democratic lawyers), Paz sin Fronteras, IFOR (international Fellowship of reconciliation) e Associazione Vittorio Chizzolini. Link alla pagina del Ministero della Pace Ebook “Calling for Ministries of peace alla round the world” Flayer dell'evento Video dell'evento su Facebook  
APG23
21/09/2018
Mamme con bambini in carcere: «A scuola di violenza»
Dopo la vicenda della mamma richiusa nel carcere di Rebibbia di Roma, che il 17 settembre ha ucciso la figlia neonata e il figlio di due anni lanciandoli per le scale, abbiamo intervistato Giuseppe Longo. È il  responsabile del progetto “Nessun bambino deve nascere e vivere in carcere” della Comunità Papa Giovanni XXIII.   Giuseppe, qual'è la situazione a Rebibbia? È una delle strutture meglio organizzate d’Italia, in cui anche il volontariato ha un ruolo da protagonista.  Conosco i vertici e devo dire che hanno avuto sempre una marcia in più, un’attenzione importante nei confronti dei bambini accolti dietro alle sbarre.  Durante le mie visite ho avuto una buonissima impressione.    Ma il problema in Italia è strutturale, come racconta ad esempio questo articolo di Avvenire: In Cella col biberon. A Rebibbia è evidente si sia trattato della situazione di una mamma esasperata, di cui nessuno si è accorto in tempo.   Qual’è la tua esperienza nelle carceri italiane? Ho lavorato molto a Rebibbia, dove c'è il più grande carcere femminile italiano, con il maggior numero di bambini; adesso fornisco supporto psicologico ai detenuti nel carcere di Vicenza e collaboro con gli istituti penitenziari di Venezia e di Verona.    Hai mai avuto la percezione di casi a rischio per le mamme o per i bambini? I detenuti che vengono a parlare con i volontari sono quelli che presentano una “domandina”, che va approvata dal direttore del carcere. Quindi di solito chi chiede aiuto è una persona che ha già un minimo di risorse proprie; i casi più problematici sono invece quelli di chi non chiede nulla, di si chiude in cella da solo fino alla disperazione. Questi detenuti entrano in contatto solo con gli agenti penitenziari, che non hanno compiti educativi o di prevenzione; noi non riusciamo mai ad incontrarli. C’è un ragazzo, maggiorenne, che ha già compiuto diversi tentativi di suicidio; lui non vuole avere colloqui con i volontari ma glieli hanno imposti; è un tentativo del tutto inutile, nonostante gli sforzi non riesco a fare nulla per aiutarlo.   Di che strumenti di prevenzione si dotano gli istituti penitenziari? Gli psicologi che lavorano nelle carceri sono quasi tutti assunti con contratti a termine, spesso part-time. Lavorano a rotazione. Il motivo è che la sanità penitenziaria è a carico di quella pubblica, ma non gode di nessuna attenzione. Se mia moglie non ha il pap-test in regola e non riesce ad avere un appuntamento prima di sei mesi, io da marito mi attivo per trovare una soluzione. Chi si preoccupa del pap-test delle detenute che sono in carcere? Nessuno.   Le mamme con bambini in cella godono di maggiori diritti, ma dal punto di vista della genitorialità non ricevono un sostegno adeguato.  Si trovano fianco a fianco mamme nigeriane, con mamme rom, con mamme  rumene o italiane o moldave: ognuna ha una modalità educativa diversa; ci vorrebbe un’equipe di psicologi per aiutarle a crescere come madri. Di psicoterapia non ho mai sentito parlare. Gli strumenti non sono adeguati, nessuno si preoccupa di cosa succede in cella dal punto di vista pedagogico per i bimbi.    Dietro alle sbarre una mamma è considerata brava quando dà molto da mangiare al bimbo, oppure se lo tiene molto abbracciato o se lo tiene a letto con sé. In queste condizioni è impossibile parlare di maternità responsabile, e di valutare le capacità genitoriali delle mamme. Una mamma che ho conosciuto dava alla bimba di 2 anni 4-5 uova a settimana, contro ad ogni indicazione dei pediatri; poi ci sono mamme che tengono il bambino con sé solo per avere le agevolazioni previste. Il carcere è piuttosto una scuola di sopravvivenza, di omertà, sia per mamme che bambini.   Per la prevenzione e la rieducazione sarebbero indispensabili i progetti esterni, ma hanno un costo enorme per le istituzioni: a Rebibbia ci sono dei progetti per far lavorare i detenuti nella cura dei parchi pubblici, ma questo richiede una presenza di forze dell’ordine non sostenibile economicamente. Un corso di pet-therapy che ho seguino negli ultimi anni, in cui si rieducavano le mamme attraverso la cura degli animali, è stato tagliato proprio per questo motivo.    Quali esperienze ci sono di mamme con bambino che scontano la pena fuori dal carcere? Noi abbiamo ad esempio in carico S., incinta con due bimbi di etnia rom, ospitata in una casa famiglia. Anche il papà è accolto da noi in una Cec, in alternativa al carcere. Negli ultimi anni come Comunità Papa Giovanni XXIII abbiamo accolto una decina di mamme, tutte quelle per cui ci è arrivata richiesta.  Non tutte possono accedere alle pene alternative: non in caso di pericolosità sociale o di rischi di fuga; alcune donne rifiutano poi queste possibilità per non essere trasferite e non rinunciare alle visite dei familiari. Da noi non abbiamo mai avuto tentativi di fuga, anche se in altri enti è capitato.   I bambini che arrivano in casa-famiglia rielaborano l'esperienza del carcere? In prigione nell’ora d’aria vedi questi bambini che camminano come zombi fra i corridoi; vedi mamme nigeriane che vietano ai loro bimbi di giocare con quelli italiani o con quelli rom, i figli delle detenute vanno ogni giorno a scuola di divisione e di violenza. Il bambino non ha gli strumenti per rielaborare il vissuto in carcere. Si domanderà per sempre: «Cosa ho fatto di male»?   Dietro alle sbarre subiscono continui lutti; ho visto bimbi strappati dalle braccia del papà o dalla nonna durante i colloqui perché era finito il tempo di visita, oppure piangere al termine di una telefonata con i fratelli troncata dalla voce metallica dell’inserviente. Il bimbo non può capire cosa succede, sono continui traumi, danni emotivi.   I bimbi in carcere assistono a liti fra donne, subiscono liti fra coetanei, vedono intervenire gli adulti in maniera violenta. Se un bimbo viene ricoverato in ospedale spesso la mamma non li può seguire, se la mamma va a processo il bimbo resta solo in carcere fra gli estranei.    Secondo alcune ricerche scientifiche i rumori secchi della battitura quotidiana delle sbarre provocano in loro danni celebrali irreparabili. Sono bimbi che non ti guardano negli occhi, bimbi che non vogliono salire sui nostri pulmini perché nel loro immaginario sono i mezzi dei cattivi che portano via le mamme.    In casa-famiglia un bimbo di 3 anni mi ha detto «O mi dai la mia caramella o chiamo l’avvocato», un altro che non riusciva ad aprire la porta del bagno ha cominciato a battere urlando: «Agente! Agente!», aspettando il poliziotto che arrivasse con le chiavi. Ma era in una casa normale.   Il carcere è rieducativo per queste mamme? Il carcere ferma una fase acuta, ma quando è prolungato diventa una fabbrica di violenza. Se non sei violento, non sopravvivi psicologicamente dietro alle sbarre, ecco perché le persone fragili possono cedere come è successo a Roma.    Quando le mamme arrivano da noi grazie alle pene alternative alla detenzione, noi ci troviamo con un distacco diffice da gestire: sono donne che vanno in astinenza dal figlio, che non hanno un equilibrio. Il carcere non è mai rieducativo. «Io sono entrato in galera povero Cristo e sono uscito gran delinquente», mi ha raccontato un detenuto. Il 70% di chi sconta la pena nelle carceri italiani ritorna in carcere; il 35% di questi ricade in errore per aver commesso reati imparati in carcere. Le celle sono scuole di malavita, in cui le persone si accordano sui crimini che commetteranno poi.     Dal punto di vista delle mamme, loro hanno un valore aggiunto rispetto agli altri rei: il loro bambino. Per loro diventa un principe, un gioiello che nessuno può toccare. Il bambino in carcere è tutta la loro vita, fanno a meno di mangiare per lasciare il cibo migliore al bimbo; eppure quando parli con gli ergastolani ti dicono: «Non lasciateli dentro, diventano come noi».     
APG23
20/09/2018
Un Pasto al Giorno: ecco per chi
Italiani che vivono in strada, pensionati che non arrivano a fine mese, famiglie che fuggono da guerra e povertà, bambini malnutriti. Persone che sono rimaste sole, non hanno più nulla e, a volte, non chiedono nemmeno: è a loro che, anche quest’anno, dobbiamo garantire almeno un pasto quotidiano (per un totale di oltre 7 milioni e mezzo all’anno). È a tutti loro che vogliamo restituire la dignità, proprio a partire da un semplice pasto, da cui può nascere una nuova vita. Come è successo al “signor Franco” e a Jorge. Incontriamo molti italiani; alcuni sono pensionati che con la minima non riescono a pagare le bollette e quindi vivono in case senza luce né gas – scatole vuote, piene di solitudine. Non vogliono dire a nessuno dove abitano, perché hanno paura di trovarsi tutti alla porta per dormire al coperto. Come il signor Franco, che passa la giornata in strada per avere compagnia e mangia alle mense. I figli non possono aiutarlo e allora lui non chiede nemmeno, dice che sta bene e quando può li invita a pranzo in un ristorantino. Quando usciamo in strada portiamo sempre generi di conforto, ma il signor Franco ci aspetta soprattutto per il piacere di chiacchierare con noi e rimane fino a quando parte l’ultimo autobus. Lo invitiamo sempre a venire da noi, ma lui accetta solo qualche volta, perché è orgoglioso della sua indipendenza, però quando siamo insieme si vede che è felice di aver trovato una seconda famiglia! Dico SIGNOR Franco perché alle persone di una certa età diamo del “lei”. Si usa così da noi. Non è che perché sono poveri allora perdono il rispetto. La prima volta che ho incontrato Jorge aveva i vestiti sporchi, la barba in disordine e gli occhi rossi. Gli si leggeva in viso il bisogno di essere accolto, di trovare un luogo da cui nessuno l’avrebbe cacciato via. L’ho invitato a mangiare insieme a noi al Comedor, la mensa di strada. Quel giorno Jorge ha trovato un pasto cucinato come si deve, ma non solo quello. Dopo mangiato ci ha aiutati a sparecchiare, a lavare i piatti, a riordinare. È stato l’ultimo ad andarsene, quasi volesse gustare fino in fondo quella nuova sensazione: sentirsi a casa. Uscendo ha dimenticato la bottiglia che stringeva, come fosse il suo unico appiglio, quando era arrivato. La mattina dopo Jorge è stato il primo ad arrivare. Senza che nessuno glielo chiedesse, ha iniziato a pulire i pavimenti e i bagni, ad intrattenere gli altri ospiti. Aveva voglia di rendersi utile, di stare insieme, di essere benvoluto. E tutti gli abbiamo voluto bene, da subito. Oggi, dopo tanti anni, Jorge è una delle colonne portanti del Comedor Nonno Oreste… Conosci le persone che incontriamo e con cui viviamo ogni giorno. Non sprecare l'occasione di aiutarle, dona ora per Un Pasto al Giorno
APG23
13/09/2018
300 atleti nel torneo don Benzi
Domenica 9 settembre, sui campi del Villaggio Sportivo “Francesco Bongioanni” di Fossano si è svolta la 7ª edizione dell'evento sportivo intitolato a Don Oreste Benzi, il sacerdote riminese del quale ricorreva il 93° anniversario della nascita. È stato un successo: più di 300, fra atleti e tecnici, le persone coinvolte nelle gare di Atletica, Baseball, calcio e bocce. Novità di quest'anno le gare di Atletica, che hanno coinvolto quasi tutti i giovani presenti. Due essenzialmente le categorie: i fuoriclasse (diversamente abili) e i fratelli di sport (richiedenti asilo, stranieri residenti e giovani di squadre amatoriali del territorio) che si sono cimentati negli 80 metri, nel salto in lungo e nel lancio del peso. Sul diamante del Baseball una partita a squadre miste diversamente abili e Baseball Fossano, proseguita nel pomeriggio con una dimostrazione di Kung Fu. Alla bocciofila Forti e Sani 14 squadre di bocce. #FOTOGALLERY:torneo# Più di 300 fra atleti e tecnici coinvolti, più di 20 associazioni sportive fra le quali Atletica 75, Baseball Club Fossano e bocciofila Centallese, con ruolo organizzativo. «Conosci solo ciò che ami», era lo slogan del torneo, una frase di don Benzi che ci sprona a partire dal cuore per il nostro agire, la fonte della vera conoscenza. E per finire le premiazioni con la presenza fra gli altri della presidente provinciale del Coni e membro della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, Claudia Martin. La Fondazione stessa, con la Benebanca, la Regione e il progetto fratelli di Sport del CONI e del Ministero delle Politiche Sociali e del Lavoro, fra i finanziatori dell'evento e del progetto sportivo annuale che prosegue con campionato C.S.I., allenamenti e tornei integrati regionali. Per concludere la giornata e per ringraziare è stata celebrata la S. Messa. Cosa dire? Ancora una volta un successo, grazie alla capacità di partire dagli ultimi e a riuscire a fare gruppo, a essere gruppo nel momento organizzativo e attuativo. Evento realizzato grazie al Contributo della Benebanca e della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo.
APG23
12/09/2018
#IOSPRECOZERO volume 2, per restituire il giusto valore alle cose
Quest’anno la copertina di #IOSPRECOZERO è verde perché il tema chiave del libro è la sostenibilità, vale a dire la capacità di riuscire a vivere secondo modelli equi, che rispettino i sistemi naturali da cui traiamo le risorse e la dignità di ciascuno. Don Oreste Benzi, il fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, esprimeva questo concetto molto prima che diventasse di uso comune con queste parole: “Abbiamo perso il concetto che ciò che abbiamo è di tutti e che ognuno deve prenderne solo per la parte”. E andava oltre, dicendo: “L’attuale equilibrio è l’equilibrio del più forte sul più debole: oltre che a essere terribilmente ingiusto, non potrà reggere”. Il mondo, così come va oggi, non è sostenibile, ed è necessario che ciascuno di noi si impegni a far parte del cambiamento. È proprio quello che sostiene il secondo volume di #IOSPRECOZERO, che anche quest’anno verrà consegnato a chiunque voglia fare una donazione libera durante l’iniziativa di sensibilizzazione e raccolta fondi Un Pasto al Giorno, promossa da APG23 il 22 e 23 settembre nelle piazze di tutta Italia. #FOTOGALLERY:antispreco2# Come già per il primo volume, si propongono riflessioni, ricette culinarie, suggerimenti per provare a non sprecare più nulla, dal cibo agli oggetti, dalle risorse al tempo, e a vivere la nostra quotidianità in modo più sostenibile. L’intento è quello di allargare la prospettiva da cui guardiamo alle cose, includendo nella visuale tanto le persone che abbiamo attorno quanto gli equilibri del pianeta. È proprio guardando le cose da questo punto di vista che, oltre trent’anni fa, don Oreste Benzi decise di dare vita all’iniziativa Un Pasto al Giorno, dopo aver realizzato che per garantire almeno un pasto quotidiano a chi soffre la fame bastavano 10 mila lire al mese. Oggi questa cifra va convertita nella moneta locale dei più di 40 Paesi in cui Apg23 è presente e moltiplicata per 7 milioni e mezzo di pasti all’anno – quelli che Un Pasto al Giorno cerca di garantire alle persone che ogni giorno bussano alla porta delle realtà di accoglienza di tutto il mondo anche grazie ai proventi dell’evento di piazza del 22 e 23 settembre.     Ecco cosa dicevamo lo scorso anno del primo volume di #iosprecozero: Non fornisce soluzioni definitive, ma propone una riflessione che coinvolge tutti gli aspetti del nostro vivere quotidiano, perseguendo un obiettivo che viene dichiarato fin dal titolo: #IOSPRECOZERO. Lo ha realizzato la Comunità Papa Giovanni XXIII, da sempre impegnata contro la fame e la malnutrizione, che attraverso la campagna Un Pasto al Giorno si propone di garantire almeno un pasto quotidiano alle persone che incontra e accoglie. Sprecare significa, letteralmente, “mandare in malora”: non solo il cibo che compriamo ma anche il tempo che ci è dato, il futuro dei nostri figli e di chi, oggi, si trova in condizioni di povertà. Le nostre scelte, infatti, hanno una risonanza molto più ampia di quello che immaginiamo. #IOSPRECOZERO nasce proprio dal bisogno di affermare che la dignità di chi è meno fortunato passa anche dal trattare con rispetto ciò che abbiamo, di cui dovremmo considerarci non proprietari, ma amministratori oculati. #FOTOGALLERY:antispreco# È un libro di 60 pagine e occupa uno spazio discreto perché possa diventare un compagno di viaggio. È diviso in capitoli snelli, che snocciolano cinque argomenti – il cibo, gli oggetti, le risorse, il tempo e la vita – servendosi di citazioni illustri e di esempi di vita concreti. C’è chi ci prova, infatti: trasformando nell’ingrediente principale di una ricetta antispreco ciò che solitamente viene scartato, costruendo nuovi oggetti con materiali di recupero, condividendo l’automobile con chi deve fare la stessa strada. Ma ci sono altri infiniti modi di aderire a questo pensiero, ed ecco il senso delle pagine bianche alla fine di ogni capitolo: annotare altre idee per trovare lo stile di vita più adatto a ciascuno di noi e poi condividere il tutto, utilizzando i social media e gli hashtag dedicati. L’idea di #IOSPRECOZERO, infatti, è quella di provarci insieme, perché in questo caso più che mai l’unione fa la forza: insieme possiamo davvero cambiare le cose. Interrogarci sulle nostre abitudini quotidiane è il primo passo per restituire alle cose il giusto valore e vivere così la quotidianità in modo più pieno e consapevole, per agire con responsabilità nei confronti del nostro destino comune e, nello stesso tempo, rispettare la dignità di chi soffre.    
APG23
11/09/2018
10 anni di perdono
Il 9 settembre la Casa Madre del Perdono, a Taverna di Monte Colombo (RN), era in festa: 10 anni di attività, 300 detenuti in pena alternativa al carcere che hanno scelto una strada diversa, 20 volontari che seguono passo a passo i "recuperandi", dall'inizio del percorso fino alla fine. In questa Casa la recidiva è bassissima (15%) rispetto alla media nazionale (75%): qui davvero la gente cambia rotta.  Dopo la messa, celebrata da mons. Franscesco Lambiasi vescovo di Rimini, c'è stato uno spazio per le testimonianze (ex detenuti, recuperandi, volontari, amici) che hanno sottolineato quanto sia vero che «L'uomo non è il suo errore», come diceva spesso don Benzi. #FOTOGALLERY:perdono# foto di Gabriella Carnevali «Oggi nella Casa ci sono 15 detenuti in pena alternativa al carcere, in più vivono qui 3 persone con problematiche psichiche o fisiche, che don Oreste chiamava i nostri “angeli crocifissi”»  spiega Matteo Giordani, responsabile della casa. Matteo ha conosciuto la Casa più di 7 anni fa e dopo averci vissuto per 3 anni, si è sposato. Non ha dubbi Matteo, ripensando a questi anni alla Casa Madre del Perdono: «Personalmente sento di essere cresciuto insieme ai ragazzi accolti. Ho fatto un cammino con loro e attraverso di loro, perché nelle loro storie ritrovavo alcuni pezzi della mia storia. Quella frase di don Oreste: “Non c’è chi salva e chi è salvato, ma ci si salva insieme” l’ho proprio sperimentata nella mia vita!». La Casa Madre del Perdono fa parte del progetto CEC (Comunità Educante con i Carcerati), insieme ad altre 6 strutture in Italia e 2 all'estero.   «La società deve essere coinvolta in questo percorso: ecco il primo principio del percorso CEC, di cui la Casa Madre del Perdono è il “prototipo”», spiega Giorgio Pieri, coordinatore del progetto CEC. «E noi la coinvolgiamo attraverso i volontari, che vengono più volte a settimana per incontri personali con i recuperandi. Don Oreste diceva: “Nello sbaglio di uno, c’è lo sbaglio di tutti”, quindi per recuperare uno, ci vuole il coinvolgimento di tutti. Questo “tutti” avviene attraverso i volontari, che sono veri apostoli della carità». Grazia Sciroli coordina i volontari: «Incontrare questi ragazzi in un momento delicato della loro vita mi aiuta a mettermi in contatto con la mia parte di fragilità, per essere vicina a questa umanità ferita. Come ha detto anche il Papa: perché loro sono in cella e io no? Conoscendo e incontrando loro, prendi contatto con le tue ferite e le tue fragilità e questo ti aiuta a vivere con una consapevolezza diversa». Grazia Sciroli segue anche gli incontri che ogni anno vengono proposti nella Casa Madre del Perdono, che hanno un nome suggestivo: “Università del Perdono”. L’esperienza, partita nel 2012, è nata dall’intuizione del vescovo di Rimini Francesco Lambiasi, che venendo a visitare la Casa diceva: «Qui tutto parla di perdono, dovrebbe nascere un’università del perdono» e così è stato. «L’obiettivo è quello di farlo uscire dall’ambito religioso – spiega Grazia -, perché il perdono è qualcosa di cui tutti abbiamo bisogno e non riguarda solo noi cristiani. In questi anni abbiamo invitato psicologi, economisti, suore di clausura, e tanti altri, offrendo percorsi diversi per analizzare il tema del perdono da più punti di vista. I vari contributi confluiscono su questo punto: il perdono ci fa bene e ci fa vivere liberi». Il 2008 è stato un anno importante, non solo per l’inaugurazione della Casa Madre del Perdono, ma anche per il viaggio in Brasile fatto da Giorgio Pieri insieme a Mauro Cavicchioli, che accoglieva alcuni carcerati nella propria casa famiglia. L’obiettivo era di conoscere da vicino il modello APAC che ha in gestione alcune carceri brasiliane, senza guardie carcerarie. «Di ritorno da quel viaggio io e Mauro abbiamo detto che dovevamo puntare sullo sviluppo delle APAC in Italia – ricorda Pieri – e dopo qualche mese è stata inaugurata la Casa Madre del Perdono». Mauro Cavicchioli oggi è missionario in Camerun, dove ha aperto altre 2 case CEC.
APG23
07/09/2018
A Pompei, attirati da Maria
Pompei, 7 settembre 2018. Se don Oreste Benzi fosse qui, per lui sarebbe il 93° compleanno. Ha scelto questa data, la sua Comunità Papa Giovanni XXIII, per un pellegrinaggio al Santuario dedicato alla Madonna del Rosario. Accanto a questo luogo di preghiera mariano, tra i più visitati d'Italia, si trovano anche 2 case della Comunità aperte all'accoglienza dei poveri. «Non c'è un disegno predefinito, ma sta di fatto che negli ultimi anni abbiamo aperto case famiglia a Lourdes, a Fatima, a Pompei e alla Madonna della Guardia (GE) mentre stiamo valutando una nostra presenza a Guadalupe - dice Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale della Comunità -. È come se Maria ci stesse attirando vicino a sé per indurci a vivere ancora più intensamente la scelta di condividere la vita con gli ultimi». Con Ramonda sono giunti qui centinaria di membri dell'associazione da varie parti d'Italia. A sfamare questa moltitudine non ci saranno i 5 pani e 2 pesci di evangelica memoria ma i famosi panuozzi di Vincenzo Staiano, noto come "il pizzaiolo del Papa" per aver offerto la sua pizza ai poveri di Francesco in occasione delle celebrazioni che hanno dichiarato santa Madre Teresa di Calcutta. La sua è una storia davvero particolare che verrà raccontata sul mensile Sempre di novembre. A concludere il pellegrinaggio, la Messa celebrata dal vescovo di Pompei, Tommaso Caputo. «Don Oreste è stato qui l'ultima volta nel 2006 per un meeting diocesano con giovani - ha ricordato mons. Caputo -. Qui a Pompei lui e la Comunità Papa Giovanni XXIII ci insegnano la condivisione con gli ultimi, la preghiera, la fraternità, la povertà, il lasciarsi garantire il cammino dall'autorità. Affidiamo a Maria la vostra bella Comunità e preghiamo perché sia sempre fedele agli insegnamenti di don Oreste e si diffonda in tutto il mondo. Affidiamo anche la causa di beatificazione di don Oreste, perché possiamo vederlo presto alla gloria degli altari». Al vescovo è stato donato un pastorale realizzato in Sicilia dalla cooperativa Ro' la Formichina, fatto con il legno dei barconi con cui arrivano dal Mediterraneo persone in fuga da guerra e povertà. (alessio zamboni) #FOTOGALLERY:pompei# Una casa famiglia sotto il mantello di Maria La casa famiglia di Salvatore e Raffaella si trova a poche centinaia di metri dal Santuario di Pompei, luogo dove oggi, 7 settembre, l’intera Comunità Papa Giovanni XXIII si è recata in pellegrinaggio per celebrare così il compleanno del suo fondatore a quasi 11 anni dalla sua salita al cielo. Il sorriso di Salvatore e Raffaella e la loro accoglienza brillano di giovinezza che risplende e resiste al passare degli anni. Sono entrambi originari di Vico Equense, nel Napoletano, e da sempre hanno una sensibilità spiccata per mettersi a servizio a chi ha bisogno. Un’apertura e una disponibilità che emanano in modo assolutamente naturale, anche se la loro strada non la trovano subito: «Facevamo volontariato in una casa famiglia, una “cosiddetta” famiglia – calca l’accento Salvatore, per sottolineare che le vere case famiglie sono quelle in cui il papà e la mamma scelgono di condividere la vita 24 ore su 24 –, con operatori, e ci hanno proposto un affido. In realtà noi volevamo capire la nostra strada» Abbiamo trovato quello che stavamo cercando «Quando abbiamo conosciuto don Oreste è stato un trovare quello che stavamo cercando: coniugare l’impegno pratico, sociale, con la fede», prosegue Raffaella. «Il periodo iniziale abbiamo seguito l’invito di don Oreste a frequentare i deserti. Ancora oggi ci teniamo all’ impegno nella preghiera quotidiano, sempre insieme. Anche nel 2000, quando Giovanni Paolo II ha invitato alla riscoperta della Lectio Divina in famiglia, l’abbiamo seguita per diversi anni. Già prima avevamo colto questa sensibilità nella parola». Una famigliola nella quale si apparecchia (almeno) per 12 Ora in casa sono in 12. Oltre a Salvatore, Raffaella e la figlia Roberta, c’è la mamma di Raffaella di 93 anni. Perché non è sempre vero che si è costretti a scegliere se prendersi cura dei propri familiari o degli altri. Se c’è apertura e intelligenza d’amore c’è posto per tutti, e i bambini hanno così anche una nonna. Infatti ci sono due minori di 10 e 11 anni orfani di mamma. Una ragazza di 32 anni con una lunga storia di affidi falliti alle spalle. Una ragazza brasiliana di 25 anni, anche lei che arriva da una adozione fallita: «arrivò fuori dal portone di casa – racconta Salvatore – facemmo un lungo colloquio, abbiamo cercato una mediazione con i familiari, ma scelse di rimanere qui e ora ha ricominciato lo scuola». Poi c’è una mamma marocchina con una neonata, una ragazza qui da settembre che aveva conosciuto la casa famiglia di Assisi e le hanno consigliato di venire qui, e un signore senegalese di 42 anni, operato al cuore. La “profezia” Ma come siete arrivati qui? «Diciamo che c’è stata una profezia! – racconta Raffaella – Nel 2012 andammo a prendere Paolo Ramonda all’Aeroporto perché doveva fare un convegno da queste parti. Passando dall’autostrada gli facemmo vedere il campanile del Santuario della Madonna di  Pompei e – recitando il rosario – Paolo disse “magari ci chiamassero…”. Dopo un anno il vescovo Caputo ci chiamò. Quando il Vescovo ha chiamato, Paolo Ramonda ci ha chiesto la disponibilità a venire. La casa è stata aperta il 5 maggio 2014». «Qui c’erano un tempo tanti istituti – racconta Salvatore –, fondati dal Beato Bartolo Longo, l’avvocato pugliese che ha fortemente voluto e realizzato il Santuario. Lui, dopo un periodo travagliatissimo di perdita di fede ed  esoterismo, è stato chiamato alla conversione. Lui ha fondato dal nulla il Santuario, ma come tutti i santi “sociali” ha avuto l’intuizione di creare opere accanto al santuario. Qui arrivavano tantissimi orfani, anche da fuori regione. Come San Giovanni Bosco dava a tutti questi ragazzi un lavoro. Quindi qui c’erano scuole tecniche in cui imparavano un mestiere». Incontri importanti nelle ex case operaie Anche questa casa in cui vivono, come quelle che la circondano, sono state un’intuizione di Longo: prima del Santuario ha fatto edificare le case per i manovali che lo avrebbero costruito. Queste sono conosciute come le “Ex case operaie”. «Tre giorni dopo l’apertura è passato di qui Mons. Parolin, segretario di stato Vaticano, e il nostro vescovo è rimasto meravigliato di come lui parlasse con noi, in maniera semplice e familiare, dei nostri missionari in Venezuela, che conosceva personalmente». «Con il vescovo, come ci invitava a fare don Oreste, abbiamo un rapporto molto buono. Lui ci ha presi a cuore e sentiamo che si appassiona in particolare delle storie che gli raccontiamo, delle nostre accoglienze». Sono passati da questa casa anche mons. Ravasi e il card. Bassetti. «Quando vengono il nostro vescovo li porta qui – chiude onorato Salvatore –  gli piace come lavoriamo, e la nostra casa è sempre piena di storie, di persone, e accogliente ad ogni ora». (marco scarmagnani) Il Santuario Il beato Bartolo Longo riceve l’ispirazione divina a diventare apostolo del rosario mentre «in preda ad una tristezza cupa e poco meno che disperata», in un giorno di ottobre del 1872 si aggirava smarrito nei pressi di Pompei. «Tutto era avvolto in quiete profonda – scrisse –. Volsi gli occhi in giro: nessun’ombra di anima viva. Allora mi arrestai di botto. Sentivami scoppiare il cuore. In cotanta tenebrìa di animo una voce amica pareva mi sussurrasse all’orecchio quelle parole, che io stesso avevo letto […]: “Se cerchi salvezza, propaga il Rosario. È promessa di Maria. Chi propaga il Rosario è salvo!”». L’immagine della Madonna del Rosario arrivò nella Valle di Pompei il 13 novembre 1875. «Or chi avrebbe creduto possibile che quella vecchia tela, pagata più di tre lire, e che faceva allora il suo ingresso in Pompei sopra un carro di letame, era nei disegni della Provvidenza ordinata ad instrumento di salvezza di innumerevoli anime?». Un luogo che testimonia la conversione dopo la caduta, come per molti che hanno redento la loro vita dopo aver conosciuto don Oreste e la sua Comunità; un luogo nel quale la Provvidenza ha scelto di servirsi di strumenti umili, come un vecchio quadro da tre lire, come molti “piccoli” che nelle case famiglia diventano pietre angolari. Un luogo che pare fatto apposta per accogliere la Comunità Papa Giovanni XXIII che è stata qui in pellegrinaggio il 7 settembre 2018, data del compleanno di don Oreste Benzi. (marco scarmagnani)
APG23
05/09/2018
Servizio civile in Veneto: la Comunità  Papa Giovanni XXIII offre 29 posti
Sono 29 i posti per svolgere il servizio civile in Veneto messi a disposizione dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, associazione impegnata in prima linea su tutto il territorio regionale nell’aiuto alle persone fragili ed emarginate.   I candidati potranno presentare domanda entro il 28 settembre scegliendo tra i cinque progetti che prevedono l’impiego in diverse aree operative: minori, disabili, dipendenze, disagio adulto, comunicazione.   In base alle proprie attitudini ed aspirazioni, si potrà fare una esperienza formativa e di aiuto agli altri collaborando con case famiglia, cooperative sociali, comunità terapeutiche, o partecipando ad attività di sensibilizzazione e alla redazione di un giornale.   Le sedi di impiego sono dislocate nelle province di Verona, Vicenza, Padova e Treviso.   Il servizio civile è un’opportunità che viene offerta ai giovani tra i 18 e i 28 anni, dura 12 mesi, prevede 30 ore settimanali e un compenso di 433,80 euro al mese.   Per avere ulteriori informazioni basta consultare il sito www.odcpace.org e selezionare i progetti della regione Veneto, o chiamare i numeri 3491849287 e 3491629050.   Scarica il volantino
APG23
31/08/2018
Creattiviamoci: Incontrarsi è una festa!
Prendi 3 ragazzi, partiti come Caschi Bianchi con il Servizio Civile, rientrati con il desiderio di diventare «corpi civili di pace in Italia»; aggiungi persone provenienti da 10 nazioni diverse; mescola il tutto con laboratori di pittura, musica e sport e il piatto è servito: ecco la ricetta per il Festival Creattiviamoci, che si è svolto a Faenza dal 12 al 15 agosto 2018. Essere «Caschi Bianchi per sempre» era il desiderio di Martina, Luca e Marika. Per questo, al ritorno dalla missione, hanno scelto di diventare «corpi civili di pace in Italia» e di aprire, all’inizio del 2016, la Casa Della Pace di Albereto (Faenza – RA) per concretizzare nel quotidiano quanto avevano imparato durante il servizio civile: un approccio non violento nella quotidianità, condividere direttamente con le persone in stato di bisogno, in particolare richiedenti asilo, affrontare le difficoltà con l’aiuto del gruppo superando l’individualismo. Attorno a questa realtà si sono aggregati tanti giovani che, nel tentativo di creare unione e sperimentare linguaggi comuni, hanno dato vita nell’agosto 2017 alla 1ª edizione del Festival dell’incontro. Dopo il successo della prima edizione, ecco che quest’anno l’idea è stata riproposta con questi ingredienti principali: Quattro giorni di convivenza, con la possibilità di “campeggiare” Compresenza di persone provenienti da oltre 10 nazioni con un mix di lingue e culture Laboratori di pittura, scrittura creativa, teatro dell’oppresso e teatro sociale, musica, laboratori per bambini Sport Momenti di spiritualità e meditazione Com’è andata questa 2ª edizione del Festival? Ecco alcune testimonianze a caldo: «Tanti giovani… un vero SINODO!» «Voglia di costruire un mondo nuovo, più giusto, più libero» «Intreccio di lingue e culture» «Possibilità di esprimersi attraverso linguaggi universali: musica, arte, sport...» «Un germe della Società Del Gratuito» #FOTOGALLERY:creatt1# Cos'è la Casa della Pace Si trova ad Albereto di Faenza (RA) ed è un luogo di fraternità accogliente, una “base” per i caschi bianchi, dove i ragazzi possono vivere la preparazione e la formazione al servizio civile e tornare dopo l’esperienza per far decantare il vissuto e sostare a riordinare le idee per capire come proseguire il cammino. È un luogo di spiritualità non violenta, dove si cerca di costruire la pace nel quotidiano. Al momento nella Casa della Pace vivono Luca e Martina, ex caschi bianchi, Alpha, Abdulaye, Youssouf, ragazzi richiedenti asilo, Evan e Federica con i loro due figli. In questi anni sono passate più di 50 persone e più di 500 hanno partecipato alle attività e alle proposte della casa. Responsabile della casa è Giulia che condivide con i ragazzi la passione per la missione e la nonviolenza. #FOTOGALLERY:creatt2# Cos'è il Centro Aggregativo Mandalà Mandalà è un centro di aggregazione giovanile (CAG) con il focus sui richiedenti asilo politico nel territorio di Forlì, nato su proposta della Comunità Papa Giovanni XXIII. È situato nel centro storico di Forlì e quindi accessibile dai ragazzi che vivono in città. È uno spazio a libero accesso, frequentato anche da gruppi (scout, formazione dei servizi, civili ecc.). Rientra nei progetti aggiuntivi dell’ASP San Vincenzo De’ Paoli con la finalità di favorire l’incontro e la socializzazione. È aperto dalle 14.00 alle 18.00 con la proposta di laboratori e attività programmate. Negli altri orari può essere utilizzato per riunioni o iniziative occasionali di associazioni del territorio (Pensiero e Azione,  Libero Pensiero e altre). Tra le proposte più gettonate: laboratori teatrali, corsi di informatica, di educazione stradale, di educazione civica sulla Costituzione, Flash Reading, corsi di cultura italiana.
APG23
31/08/2018
Custodire la natura: impegno per tutti i credenti
Il 1° settembre 2018, è la 13ª Giornata nazionale per la custodia del creato, indetta dalla CEI. Fin dal 1989 il mese di settembre è dedicato, da tutte le Chiese cristiane, alla celebrazione condivisa del Tempo del Creato: una sfida che i cristiani stanno imparando ad affrontare assieme, riscoprendo nell’orizzonte ecumenico l’impegno comune per la cura della creazione di Dio. Un importante appuntamento di riflessione e di preghiera ecumenica per il creato, si è svolto ad Assisi il 31 agosto e il 1° settembre scorsi. All’evento, molto ben curato e organizzato dal Comitato Direttivo di Tempo del Creato, la Diocesi di Assisi, la Diocesi di Gubbio, il Serafico di Assisi e altri partner locali umbri, ha partecipato una ricca rappresentanza di diverse confessioni cristiane insieme a tante persone richiamate dall’importanza del tema. Rigorosamente in lingua inglese, c’erano però i testi e le traduzioni in italiano di tutti gli interventi, l’incontro si è sviluppato in varie tappe e ambienti della città umbra dove la spiritualità di San Francesco, così attenta alla creazione, si avvertiva in modo evidente. Tutti i partecipanti sono stati accolti dal vescovo di Assisi mons. Domenico Sorrentino, nella Sala della Spogliazione, il luogo in cui il giovane Francesco, di fronte alla sua famiglia, al vescovo Guido e ai cittadini di Assisi, compì il gesto drammatico e profetico di spogliarsi di tutti i suoi vestiti e di tutti quei sentimenti che lo allontanavano da Dio per lasciarci in eredità la spiritualità del Cantico delle Creature. In questo contesto mons. Sorrentino ha introdotto la riflessione ricordando che «il tempo del creato è innanzitutto una invocazione che leviamo al Signore perché voglia illuminare le menti e i cuori e renderci capaci di un sussulto di responsabilità». I leader religiosi presenti, partendo dalla lettura di un passo della Parola opportunamente scelto, hanno offerto la loro riflessione sulla custodia del creato mostrando tutta la ricchezza che appartiene alle varie confessioni cristiane, nella diversità e bellezza delle varie sensibilità. Ogni intervento è stato poi seguito da un canto, mantenendo un clima di profondo ascolto reciproco. Ci sono stati anche dei gesti significativi: il primo ha voluto far prendere coscienza del dolore e delle lacrime della terra e dei popoli. Due profughi eritrei presenti con le loro famiglie hanno portato le loro lacrime simbolicamente raccolte in un vaso di vetro, per ricordare il loro dolore e la sofferenza derivata dall’essere stati costretti a lasciare i propri cari e la propria terra a causa dei nostri errori. Ciascuno era così invitato a riconoscere i suoi peccati rinunciando anche a ciò che li determina, immergendo le proprie mani in queste lacrime. Il secondo gesto altrettanto significativo è stato quello della “spogliazione”: ciascuno in un biglietto ha scritto luogo, data e quello stile vita, quel peccato, quel limite che genera dolore nel mondo e di cui voleva spogliarsi per dare un concreto contributo alla cura e alla custodia della casa comune. Tutti i biglietti scritti dai presenti sono stati messi in un vaso di creta a forma di cuore per essere custoditi nel Santuario della Spogliazione a significare la consegna al cuore di Cristo stesso. Il cammino di preghiera, più contemplativo e personale, è poi continuato nella Basilica di Santa Chiara mantenendo quale filo conduttore «il mandato di Francesco di fronte al Crocifisso di san Damiano e la nostra testimonianza nel prenderci cura del creato». Alla luce di quanto suscitato dalla preghiera, animata da brani della vita si san Francesco e santa Chiara, ogni partecipante ha acceso un piccolo cero ai piedi del Crocifisso a significare il proprio personale impegno a prendersi cura del creato. L’evento si è concluso la mattina del 1° settembre sul sagrato della Basilica Superiore di San Francesco. Lì i rappresentanti delle varie confessioni cristiane hanno letto la dichiarazione ecumenica congiunta per il tempo del creato 2018. «Il modo in cui abbiamo costruito le nostre economie e società ha portato a danni incalcolabili» alla nostra casa comune e a tutta la famiglia umana. «Non abbiamo ascoltato la chiamata di Dio ad amare il creato ed amarci l’un l’altro» cercando l’interesse personale. «Sosteniamo l’accordo di Parigi» e «chiediamo provvedimenti coraggiosi» ai prossimi negoziati COP24 in Polonia per «una rinnovata solidarietà globale» camminando «insieme verso la giustizia climatica, ecologica ed economica». (luca ghini) #FOTOGALLERY:creato2# foto di Maria Consuelo Alvaro L'evento è stato organizzato dal Movimento cattolico mondiale per il clima e dal Comitato direttivo di Tempo del Creato, composto da varie Chiese cristiane, in collaborazione con la diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, della diocesi di Gubbio, del Sacro Convento di Assisi e dell’Istituto Serafico. Alla luce del tema di quest’anno del Tempo del Creato “Camminare insieme”, l’incontro di preghiera ecumenico costituirà anche l’avvio del pellegrinaggio “Il Sentiero di Francesco” da Assisi a Gubbio, attraverso cui lo spirito di Francesco giungerà in pellegrinaggio fino in Polonia, in vista della Conferenza internazionale sul clima Cop 24. (paola santini) #FOTOGALLERY:creato#
APG23
29/08/2018
Nave Diciotti: ecco i retroscena
La dichiarazione di Papa Francesco, rilasciata domenica 26 Agosto sul volo di ritorno dall'Irlanda, ha svelato la mediazione di «Padre Aldo che continua il lavoro di don Benzi» nella risoluzione della vicenda dei 177 migranti da giorni fermi al porto di Catania sulla nave della Guardia Costiera “Diciotti”. Abbiamo chiesto a Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII e successore di don Oreste Benzi, di raccontarci quanto accaduto nella giornata di sabato. Com'è nata la mediazione tra la Chiesa ed il Governo Italiano sulla Nave Diciotti? La mediazione è nata tramite don Aldo Buonaiuto, perché conosce il ministro Salvini e conosce bene anche il cardinal Bassetti, presidente della CEI. Da tanti anni la Comunità realizza a Perugia, la Diocesi di Bassetti, un'unità di strada per la liberazione delle donne costrette a prostituirsi. Il cardinal Bassetti è anche venuto ad una nostra assemblea per celebrare la Santa Messa. In questa vicenda si era creato un impasse e dunque si è pensato che la Chiesa potesse fare qualcosa. Io come responsabile sono stato d'accordissimo alla mediazione di don Aldo Buonaiuto, il quale è rimasto in stretto contatto con me e mi ha sempre chiesto conferma dei suoi passi. Ed io li ho confermati ben volentieri. Questo silenzioso lavoro diplomatico è stato un atto di giustizia. Ha sbloccato una situazione molto critica, insostenibile per i migranti, che stava dividendo il Paese. Ritengo poi molto valido che la Chiesa abbia risposto positivamente alla richiesta di ospitare i profughi. Evidenzia ancora una volta come la Chiesa da secoli sia maestra nell'accoglienza dei poveri. Cosa hai provato quando il Papa stesso ha svelato la mediazione segreta? Sono stato molto contento. Il fatto che il Papa abbia riconosciuto il ruolo della Papa Giovanni nella diplomazia è un vanto. Conferma questo rapporto con la sede di Pietro che la Comunità ha sempre tenuto sin da quando c'era don Oreste. Con questo Papa poi la collaborazione si stringe sempre di più. Noi mettiamo il nostro carisma a servizio della Chiesa italiana anzitutto, ma anche della Santa Sede. La Comunità Papa Giovanni accoglierà i profughi eritrei della Diciotti? Noi abbiamo dato disponibilità di 40 posti, ma vedo con piacere che tante diocesi hanno risposto di volerli accogliere. Noi abbiamo già centinaia di persone che ogni giorno bussano alla porta. Come giudichi la risposta dell'Europa a questa vicenda? L'Europa fa orecchie da mercanti. Programma tutto, fino all'ultimo centesimo sul piano economico, ma su questo tema lascia la libertà di accogliere o no. È una follia. Per cui la richiesta che l'Europa faccia la sua parte è legittima. Tanto che in questo caso han dato la disponibilità l'Irlanda e l'Albania, che non è neanche membro dell'Unione Europea. Il buon senso fa dire che è giusta la ripartizione dei migranti tra gli Stati Europei, perché la ripartizione garantirebbe l'integrazione. Il tema immigrazione sta polarizzando l'opinione pubblica italiana. Cosa ne pensi? Non bisogna mai estremizzare le posizioni, ma essere concreti. Quando sono in mare le persone vanno soccorse, accolte ed integrate. Ovviamente tutti non si possono accogliere. Anche il Papa, sempre nel volo di ritorno da Dublino, ha detto che «se non si può integrare, è meglio non accogliere». Però esistono i trafficanti, le prigioni libiche, dunque il problema è molto complesso. Per questo ho convocato un incontro straordinario della nostra associazione sul tema immigrazione affinché tutti possano dare un contributo, non ideologico né fazioso ma costruttivo per il bene di queste persone. (L'incontro si terrà lunedì 17 Settembre ore 18 a Rimini presso il salone degli uffici amministrativi, ndr).    
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